Nella lotta alla corruzione, nel corso degli ultimi anni, l’Italia ha cercato di migliorarsi, spinta dagli impulsi internazionali, dalla poca fiducia risposta dagli investitori nel nostro Paese e da indagini statistiche di certo non confortanti.
Indubbiamente il D.lgs. n°231/2001 ha segnato un passo importante, troppo piccolo, però, rispetto al fenomeno da arginare.
Per quanto fosse importante concentrare l’attenzione sulle imprese, infatti, si profilava la necessità di una radicale riforma della P.A. e dei suoi meccanismi di funzionamento ed era necessario un cambiamento del sistema penale posto a presidio dei reati contro la P.A. commessi da Pubblici Funzionari.
Tutti i Governi, negli ultimi anni, sono intervenuti con importanti riforme in materia, consapevoli del fatto che la corruzione è di ostacolo alla riduzione della povertà, che distrugge la fiducia nelle istituzioni ed interferisce col funzionamento equo ed efficiente dei mercati.
In Italia il passo decisivo è stato compiuto con la Legge n°190/2012 e successive modifiche ed integrazioni.
La novella legislativa nasce dalla necessità, sempre più avvertita nel nostro Paese, di rispondere ai costanti monitoraggi e alle continue raccomandazioni degli organi di verifica internazionale, come il GRECO (Gruppo di Stati contro la Corruzione) per il Consiglio di Europa e il Working Group per l’OCSE.
Primo obiettivo è stato svecchiare un sistema penale obsoleto, adeguandolo al radicale mutamento verificatosi negli ultimi decenni dai fenomeni corruttivi.
Da sempre la corruzione era stata considerata un rapporto illecito a due soggetti. Negli ultimi anni però diverse inchieste avevano fatto emergere una realtà diversa. Spesso fenomeni corruttivi coinvolgevano soggetti ulteriori chiamati a svolgere funzioni di intermediazione e di filtro, che rimanevano impuniti.
Viene quindi introdotto il reato di “traffico di influenze illecite”, che punisce coloro che si fanno dare o promettere denaro o altri vantaggi patrimoniali per svolgere una mediazione con il pubblico ufficiale o l’incaricato di pubblico servizio, per far loro compiere atti contrari ai loro doveri di ufficio o far omettere o ritardare atti del loro ufficio.
Negli anni è cambiato anche l’oggetto del patto corruttivo. Le inchieste, infatti, avevano messo ben in evidenza che spesso il Pubblico Ufficiale corrotto si impegna ad adottare non un atto del suo ufficio, ma anche semplicemente a far valere il suo peso istituzionale sul pubblico agente competente all’emanazione dell’atto cui è interessato il corruttore, esercitando un’attività di influenza. Si era notato che l’attività del corrotto si faceva ormai rarefatta, senza mai materializzarsi nell’adozione di uno specifico atto amministrativo.
L’attività illecita consisteva nell’impegno ad assicurare protezione al corruttore nei suoi futuri rapporti con la P.A.. Spariva la tangente sostituita da altri meccanismi di pagamento, più difficili da rintracciare.
Sulla scia di tale evoluzione la Legge n°190/2012 ha sostituito al delitto di “corruzione per un atto d’ufficio” il reato di “corruzione per l’esercizio della funzione”, che punisce il Pubblico ufficiale o l’Incaricato di Pubblico servizio che fa mercimonio per esercitare le sue funzioni o i suoi poteri.
In materia di concussione, invece, la vecchia ipotesi criminosa è stata divisa nella “concussione mediante costrizione” (in cui ad essere puniti sono solo il P.U. e l’incaricato di pubblico servizio) e la concussione mediante induzione, ove la pena è estesa anche al privato.
La Legge n°190/2012, oltre a riformare il sistema penale, si concentra anche e soprattutto sulla fase preventiva, guardando alla corruzione non solo e non tanto come fenomeno da reprimere, ma anche e soprattutto come fenomeno da prevenire.
Intento primario del Legislatore è intervenire sulle forme di malcostume amministrativo che deludono le aspettative dei cittadini e creano un habitat confortevole al proliferare dei germi della corruzione.
Lasciando al giudice penale la fase repressiva, il Legislatore agisce a monte del problema, facendo in modo di creare le condizioni perché i processi decisionali pubblici siano trasparenti e verificabili. Tale compito, quantomai arduo, è affidato ai Piani Anticorruzione, che ogni P.A. deve adottare. Il Piano deve essere redatto secondo le indicazioni fornite dal Piano Nazionale Anticorruzione, emanato dall’ANAC, autorità cardine in campo di prevenzione e controllo.
Dallo studio della normativa anticorruzione emerge con chiarezza che l’obiettivo è non solo quello di perseguire pesantemente la corruzione intesa in senso penalistico, ma anche quello di arginare l’illegalità, quale deviazione funzionale dell’attività pubblicistica, cioè la cd. corruzione amministrativa.
Il concetto che emerge, allora, è che la corruzione non è solo utilizzare le risorse pubbliche per il perseguimento di un interesse privato, ma anche perseguire un interesse pubblico per interessi privati.
Nella circolare della presidenza del Consiglio del 25 gennaio 2013 si mette in evidenza proprio il fatto che il sistema congegnato dalla Legge n°190/2012 vuole arginare la corruzione intesa in senso ampio, tale da ricomprendervi non solo quei fatti che costituiscono reato, ma anche il malcostume diffuso di quanti nell’esercizio dell’azione amministrativa abusano del potere che è stato loro affidato al fine di ottenere un vantaggio privato. La legge anticorruzione mira anche a prevenire i casi di malfunzionamento della P.A. a causa dell’uso a fini privati delle funzioni attribuite.
Il Piano Triennale anticorruzione e trasparenza, quindi, ha la finalità di scongiurare tali comportamenti.
Da tanto consegue che la P.A. si è dotata di veri e propri sistemi di gestione, che, previa analisi accurata dei rischi riguardanti i processi organizzativi e funzionali, riescano ad arginare la possibilità che si verifichino comportamenti corruttivi nella compagine amministrativa.
Come nel settore privato, anche in quello pubblico, diventa essenziale prevenire la irresponsabilità organizzativa o la colpa di organizzazione, che si ha quando una P.A. organizzata confusamente, è gestita in modo inefficiente, non responsabile e non è responsabilizzata.
L’ambizione perseguita dalla nuova normativa è replicare nella P.A. il sistema protocollare proprio dei modelli organizzativi ex D.Lgs. n°231/2001.
La Legge n°190/2012, allora, ha introdotto un nuovo meccanismo di attribuzione della responsabilità, analogo a quello del d.lgs. n°231/2001. Nel caso di commissione di un reato di corruzione, accertato con sentenza passata in giudicato, ne risponde il responsabile per la prevenzione della corruzione e per la trasparenza, a titolo erariale, civile, disciplinare e di responsabilità dirigenziale.
Ad accertare la sua responsabilità sarà la Corte dei Conti.
Il RPCT non risponde, ed ecco l’analogia con il D.Lgs. n°231/2001, solo ove abbia predisposto ed efficacemente attuato un piano idoneo. Il Piano, come i compliance programs, è strumento di organizzazione che la P.A. adotta per evitare che all’interno della propria struttura si realizzino determinati atti illeciti, aventi rilevanza penale.
Sebbene il cammino sia ancora lungo, diverse indagini statistiche dimostrano come la lotta alla corruzione stia andando nel verso giusto.
Un dato rilevante è offerto dall’indice della percezione della corruzione. Il Trasparency International misura ogni anno tale percezione in 180 Paesi. I Paesi che ottengono 0 come punteggio sono molto corrotti, quelli che ottengono 100 sono “puliti”. L’Italia nel 2012 si collocava al 74°posto, oggi si colloca al 53°posto.
Ciò dimostra che, evidentemente, la strategia della prevenzione pianificata premia, impedendo pratiche illegali e scorrette.
Bibliografia
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